CASTANO PRIMO – Il tranquillo paese di un tempo sta ora diventando il teatro di una profonda divisione sociale che provoca non poche preoccupazioni. L’inaugurazione del nuovo centro culturale islamico ha messo in luce una frattura che, secondo alcuni residenti, non fa che acuire un malcontento latente, radicato in una percezione di cambiamento rapido e incontrollato del tessuto sociale del paese passando da “occidentale” a “islamico”.
In una serie di testimonianze raccolte e di commenti che circolano con insistenza tra i cittadini, si delineano i contorni di una comunità che si sente sotto assedio e che esprime rabbia e delusione. Un’inquietudine che, pur non essendo unanime, risuona con forza e solleva interrogativi cruciali sulla convivenza, l’integrazione presunta e il ruolo delle istituzioni.
La percezione di un paese in completa trasformazione
Secondo diverse voci del paese, negli ultimi cinque anni Castano Primo avrebbe subìto una trasformazione radicale. Se un tempo era noto per essere un borgo accogliente e dalla comunità coesa cristiana, oggi alcuni lo descrivono con toni drammatici, paragonandolo a “un paese che sembra Bagdad”, un’espressione forte che traduce il senso di estraneità e smarrimento di chi non riconosce più il proprio ambiente.
Il fulcro di questa percezione, secondo quanto si apprende da molteplici testimonianze raccolte, sarebbe l’aumento esponenziale della comunità di immigrati di origine pakistana di fede islamica. Un incremento che, a detta dei residenti, avrebbe superato “la pazienza dei cittadini”, portando a una situazione di crescente insofferenza e preoccupazione. La sensazione diffusa ed espressa dai cittadini è che il paese sia ormai “in mano a questi pakistani islamici”, una frase che esprime non solo il timore per una maggioranza numerica percepita, ma anche un profondo senso di impotenza e perdita di controllo.
Le accuse più ricorrenti riguardano una presunta mancanza di integrazione da parte di questa comunità. I cittadini lamentano di vedere sempre più spesso persone che “girano per il paese con i loro tradizionali vestiti islamici”, un dettaglio che, nel loro immaginario, rappresenta il rifiuto di assimilare le usanze e i codici sociali locali. La presenza di questi abiti, percepiti come un simbolo di una cultura “lontana”, diventa così l’emblema di una separazione volontaria, di una comunità che non vuole mescolarsi con gli altri. Questo senso di distacco, secondo le testimonianze, avrebbe un riflesso tangibile sulla vita quotidiana: si afferma infatti che “di sera il centro città è ormai impraticabile perché i cittadini si sentono estranei a casa loro”, un’affermazione che, anche se non avvalorata da dati oggettivi, descrive perfettamente il clima di timore e il cambiamento nelle abitudini che una parte della popolazione sta vivendo.
Il Centro Culturale Islamico: da spazio di dialogo a motivo di scontro
L’inaugurazione del nuovo centro culturale islamico ha rappresentato la scintilla che ha riacceso le polemiche, portando in superficie una serie di tensioni latenti. La struttura, che nelle intenzioni dei suoi promotori avrebbe dovuto essere un luogo di incontro e di dialogo, è diventata, di fatto, il principale motivo di scontro.
Il Sig. Luigi riferisce: “quello non è un centro culturale ma una vera e propria moschea dove i pakistani vanno li per pregare e diffondere il loro culto anche ai loro bambini rendendo ancor più difficile l’integrazione”;
La Signora Maria S. delusa dice: ” io ormai mi sono arresa, vendo la casa e mi trasferisco in un paese più tranquillo, non mi sento al sicuro qui ne io ne mia figlia”.
Queste sono solo alcune delle testimonianze raccolte!
La delusione dei Cittadini verso le istituzioni
In questo clima di sospetto e malcontento, le frecce della critica sono rivolte anche e soprattutto verso le istituzioni. I cittadini si dicono “molto delusi e arrabbiati dalla precedente amministrazione”, accusata di aver permesso e facilitato quella che viene definita senza mezzi termini come un'”occupazione etnica”. La sensazione è che le amministrazioni non abbiano tutelato gli interessi della popolazione locale, lasciando che il paese cambiasse radicalmente senza un adeguato controllo o un piano di integrazione efficace.
I cittadini adesso dicono che è arrivato il momento che le cose cambino a costo di interessare tutti i media nazionali. Chiedono a gran voce un’amministrazione che si schieri apertamente al loro fianco, che non rimanga sorda alle loro preoccupazioni e che avvii provvedimenti concreti per “riprendere il controllo”. Le loro richieste vertono su una maggiore trasparenza e una verifica più serrata sulle attività del centro culturale islamico e sulla gestione dei flussi migratori.
C’è la ferma intenzione di far sentire la propria voce e di non accettare passivamente un cambiamento che, a detta di molti, sta snaturando l’identità di Castano Primo. La delusione si è trasformata in un desiderio di azione, nella speranza che l’amministrazione attuale sappia ascoltare e rispondere in modo efficace a un grido d’allarme che, dopo anni di silenzio, è diventato assordante.
Ma cosa dicono alcuni Pakistani intervistati?
Intervistando alcuni membri della comunità pakistana residenti a Castano Primo, emerge un sentimento di forte attaccamento e apprezzamento per il paese che li ha accolti. In molti affermano di trovarsi benissimo, riconoscendo le opportunità offerte dal territorio e la sua qualità della vita.
La loro integrazione, spiegano, passa soprattutto attraverso il lavoro. Molti di loro sono impiegati come operai in aziende di costruzione e in altri settori produttivi, contribuendo in modo concreto all’economia locale. Questo impegno quotidiano è un segno tangibile della loro volontà di non essere considerati come un peso, ma come una forza lavoro attiva e indispensabile.
Il loro progetto di vita è chiaro: vogliono far crescere i loro figli in Italia. Questa aspirazione, comune a molte famiglie, evidenzia un desiderio profondo di radicamento, di costruire un futuro qui e di non considerare Castano Primo e l’Italia come un semplice luogo di passaggio.
Vogliono che i loro figli crescano bilingui, che frequentino le scuole italiane e che abbraccino i valori civili e sociali del paese, pur mantenendo un forte legame con le proprie radici culturali e religiose.
Religione e identità: tra preghiera e tradizioni
Il forte legame con la propria identità religiosa è un altro punto chiave emerso dalle interviste. I pakistani di fede islamica sottolineano come la religione non sia un ostacolo all’integrazione, ma una parte essenziale della loro vita.
L’esigenza di professare la propria fede e di avere spazi adeguati per la preghiera è un’istanza che viene ribadita con forza. “Vogliamo poter pregare in modo dignitoso”, affermano, chiedendo più posti adibiti a tale scopo. Questa richiesta si scontra direttamente con le recenti polemiche sul centro culturale islamico, che alcuni residenti accusano di essere stato trasformato in una moschea. Per la comunità pakistana, invece, la possibilità di avere un luogo di ritrovo e di preghiera non è un segno di chiusura, ma una necessità vitale per la loro comunità e un diritto fondamentale.
Il desiderio di mantenere vive le proprie tradizioni si manifesta anche nell’abbigliamento, un aspetto che, secondo le testimonianze raccolte tra la popolazione locale, viene visto come un simbolo di mancata integrazione. I pakistani intervistati, tuttavia, lo vivono come un segno di identità culturale e religiosa che non preclude in alcun modo la loro partecipazione attiva alla vita sociale e lavorativa del paese. È una questione di radici, di appartenenza e di dignità che, per loro, non è in contraddizione con il desiderio di vivere e lavorare in Italia.
Dalle parole degli intervistati emerge con chiarezza che si tratta di persone con una profonda voglia di vivere e lavorare in Italia. Tuttavia, il divario culturale tra la loro tradizione e quella occidentale, pur non essendo percepito come un ostacolo da parte loro, rappresenta una sfida complessa che sta alimentando le tensioni a Castano Primo. La differenza non è vista come un’arricchimento, ma come un muro che crea una frizione costante, spesso alimentata da pregiudizi e paure reciproche.
(FOTO di repertorio)
(FONTI: testimonianze dei residenti)